IGOR JELEN
Siamo tutti un po' hlapec

Le sequenze del video inducono ad un sentimento misto, tra ricordi in bianco e nero, interpretazioni sociologiche, ricostruzioni etnografiche: il hlapec (servitore) Genio evoca immagini cariche di pathos miste ad una struggente nostalgia per un mondo che - a scanso di equivoci - è per fortuna scomparso. Alla fine resta una sensazione ambigua, di coinvolgimento, qualche cosa di inconsapevolmente già vissuto, e anche un mondo di emozioni e di nostalgie irrimediabilmente perse: ciò che una volta significava un senso di umanità e i tanti aspetti che ne costituivano la trama e il fondamento.
In realtà, ciò che oggi appare come la narrativa di un mondo lontano, è la vita di una volta: la società della tradizione, in un villaggio di montagna, che persiste nella memoria e che resta una parte di noi stessi e della vita di oggi. Una realtà difficile e inconcepibile, se osservata "in retrospettiva", dal piedistallo della vita moderna, ma che, se contestualizzata, permette di cogliere in quei fotogrammi altri significati.
Proprio la contestualizzazione, operazione necessaria quanto faticosa, permette di cogliere i significati complessivi di quelle immagini, e di collocare emozioni e sensazioni in un quadro culturale. La ricostruzione della tradizione, allora, non servirà soltanto per evocare una condizione primitiva e superata, ma sarà anche la rappresentazione di un'esistenza fondamentalmente libera e tutto sommato sopportabile.
Genio, il hlapec, rappresenta molto di più di una semplice e commovente figura di "disgraziato"; resta l'immagine della sofferenza, caratteristica della vita tradizionale, che però non degenera mai nell'emarginazione definitiva e nella disperazione. E' l'immagine della carenza, di un destino che costringeva molti a partire, a fare l'emigrante, al di là delle descrizioni di maniera, a girovagare di villaggio in villaggio, semplicemente offrendo il proprio lavoro, per sopravvivere alla brutta stagione, al freddo, all'isolamento e alla fame. Un modo di vivere che, quando non garantiva la sopravvivenza, concedeva comunque la possibilità di partire, a volte semplicemente per risparmiare sulle bocche da sfamare e sulle scorte della fattoria, senza la garanzia di poter tornare a casa propria, ma con la speranza di trovare comunque, da qualche parte, una casa.
Anche in questo caso la contestualizzazione offre elementi per l'interpretazione.
Ciò cui oggi si guarda con compassione, la vita del bracciante emigrante stagionale, era allora piuttosto un privilegio: una possibilità che era propria del contadino di montagna, a differenza del contadino di pianura, per il quale il fatto di partire alla ricerca di migliori opportunità non era neppure pensabile. Costretto al fondo da qualche arrogante autorità, in caso di carestia, non aveva alternativa a quella di morire di fame o di stenti nel luogo al quale apparteneva irreversibilmente.
E comunque, in quei tempi, si lavorava per mangiare, semplicemente per sopravvivere, per guadagnarsi la possibilità di avere un tetto sotto il quale ripararsi; un genere di vita che individuava nel fatto di svolgere diligentemente il proprio compito l'unico motivo di compiacimento e l'unico modo per meritarsi qualche cosa. Tutti erano uguali di fronte alle necessità della vita quotidiana, anche chi come il nostro hlapec era un po' "meno uguale degli altri": l'aneddotica della vita della tradizione è piena di personaggi di questo tipo, di "scemi del villaggio" che per paradosso, proprio perché esclusi dal gioco quotidiano, invece, a volte diventavano i saggi riconosciuti, che vengono interpellati in qualsiasi circostanza, rispettati e anche venerati.
Chi è fuori dai giochi, l'outsider, può diventare un riferimento preciso nella scacchiera della comunità tradizionale - per sua natura, invece, piuttosto "chiusa" alle interferenze dall'esterno.
E in questo contesto la figura di hlapec è ancora più struggente, e più significativa, con il suo leggero difetto, oggi si direbbe handicap, con il suo leggero zoppicare, le difficoltà nel parlare e nel farsi comprendere. La vita della comunità di villaggio era spietata - significava sicuramente un modo sociale repressivo - ma soltanto verso i pigri e i mal intenzionati; non faceva mancare il necessario a chi dimostrava qualche buona volontà.
Come si comprende dalle immagini del film di Paolo Rojatti, nessuno costringe Genio a lavorare troppo, nessuno lo sfrutta, nessuno abusa della sua debolezza né della sua ingenuità; fa ciò che può, che è tantissimo e che gli fa meritare il gesto amichevole e solidale dei contadini e la parola gentile di qualche casalinga. Neppure i mocciosi che lo infastidiscono lungo le vie del villaggio sembrano essere troppo cattivi, e il loro atteggiamento sembra avere qualche cosa di scherzoso, piuttosto che di irrispettoso.
La comunità alpina o meglio, in questo caso, prealpina offre lo scenario tipico di queste vicende: da altre parti il hlapec non avrebbe avuto alcuna possibilità, e sarebbe diventato probabilmente un servo della gleba (nei latifondi di qualche feudatario), uno schiavo, un galeotto al servizio di qualche "signore" o castellano, costretto ad ammazzarsi di lavoro nei campi, in qualche miniera o in qualche guerra combattuta per quello stesso "signore". In un paese di montagna questo non succedeva: il contadino può girare, prendersi e andare, cercare altrove opportunità di sopravvivenza; Genio viene semplicemente adottato dal villaggio dove si stabilisce - chissà da dove arriva -, dove nessuno può restare senza un piatto di minestra e senza un tetto.
La storia di hlapec, allora, diventa la rappresentazione di intere generazioni di hlapci che da tempo immemore girano di villaggio in villaggio, nell'ambiente tutto sommato accogliente e abbastanza flessibile della rete della comunità rurali, dove la vita era difficile ma dove chiunque si dava un po' da fare - sistemare il fieno nei fienili, spaccare la legna, portare l'acqua, dare una mano nei lavori della fattoria - meritava in modo automatico un segno di rispetto.
L'ambiente della montagna è aspro ma, a differenza della pianura e della città, offre un collegamento immediato con le risorse naturali - i pascoli, i campi, i boschi, le correnti d'acqua -, fatto che permette alla comunità di sopravvivere e di mantenere un regime di vita autonomo, e di non dipendere da nessuno.
Si fa fatica a capire oggi, alla distanza di solo qualche decennio, come si poteva vivere così; in realtà è molto semplice, se si pensa che, tutto sommato, non c'erano alternative: la necessità diventava un dovere, e il dovere un diritto e anche - si può immaginare - un motivo per guadagnare un po' di sicurezza e serenità: l'arte di apprezzare cose e dettagli che oggi sembrano senza senso. Così, al di là delle ricostruzioni, la figura di Genio mantiene qualche cosa di epico e diventa una straordinaria fonte di valori e di motivazioni.
Il hlapec - termine che il dizionario sloveno traduce con "servo", ma anche come garzone o bracciante - si integra ben presto nella vita della comunità, si mette al servizio di tutti, fino al punto che, in realtà, tutti finiranno per essere al suo servizio, verificando la regola alla base della civiltà comunitaria. Una vita grama ma che, alla fine, non si distingue molto dalla vita degli altri, anch'essi liberi contadini di montagna, accomunati dallo stesso destino e dalla stessa necessità di sopravvivere nel medesimo luogo.
Una vita, in realtà, tanto grama quanto straordinariamente ricca di valori: qualche cosa - il senso della solidarietà e del sollievo che si prova a condividere una difficoltà - che oggi difficilmente qualcuno può provare in quei termini, con quella intensità, e che anzi la vita atomizzata della globalizzazione tecnologica sembra ancor più allontanare. In sostanza, una vita ricca e piena di tutto ciò che la vita moderna perderà irrimediabilmente di lì a poco, ovvero umanità - un fatto che dovrebbe far riflettere - e che, nonostante tutte le ricchezze che la tecnologia mette a disposizione, è difficile e forse impossibile soltanto immaginare. Emozioni e motivazioni che non costano niente ma che neanche un milionario può acquistare. E così per altri aspetti di quell'esistenza, come il dialogo continuo con la natura, un certo senso dell'appartenenza, capacità di improvvisare, spirito di adattamento, gentilezza, rispetto...
Le cose, appunto, andranno diversamente; il mondo della tradizione e il paese di hlapec resteranno travolti dalle circostanze e dalla rapidità dello sviluppo - così come tutti i paesi della Benecia e della montagna friulana.
E' anche un mondo fragile e irriproducibile e che al confronto con le innovazioni verrà distrutto, e che soprattutto si rivelerà impossibile da scindere in parti, quindi da "modernizzare", da adattare ai ritmi della civiltà industriale: un mondo che si accetta in tutto o per niente, e che in effetti non tarderà a ridursi in niente.
I fotogrammi che scorrono portano con sé anche tutta la "pietas" che caratterizzava quel senso dell'esistenza, di mille generazioni senza nome, tanti hlapci che giravano di villaggio in villaggio; e lasciano il senso di una profonda malinconia. Ma anche per questo, non si può dire che sia, quella di hlapec, un'esistenza vana e sprecata nell'infinito della vita tradizionale, che - come dicevano Braudel e gli "annalisti" - si ripete sempre uguale a se stessa, invariabilmente. Piace pensare che, se la scena cambia, in fondo i protagonisti restano sempre gli stessi...
Così le scene del hlapec, che, girate nei primi anni '60, mostrano già qualche segno della modernità, di una modernità appena abbozzata; si vede qualche macchinario, qualche nuovo strumento di lavoro, qualche oggetto di plastica ecc.; siamo agli albori di un movimento che travolgerà tutto e che lascerà quelle campagne e quelle montagne letteralmente svuotate di tutto.
Una modernità appiattente, al di là delle comodità tecnologiche, nella quale chiunque rischia in ogni momento di perdere ciò che hlapec aveva di più pregiato, e di gratuito, spontaneità e umanità: abitanti di terre abbandonate e di deserti della globalizzazione, costretti a vagare, senza una vera casa e senza un vero tetto.
Forse è proprio da qui che è necessario ripartire, per ritrovare noi stessi, da quanto hlapec Genio ci ha inconsapevolmente insegnato - ciò che gli scienziati della cultura definiscono come "territorialità" -, un segno di umanità, di un paese e di una civiltà.


Igor Jelen è professore associato di Organizzazione e pianificazione territoriale presso l'Università di Trieste, e Wissenschaftlicher Berater presso l'Università di S. Gallo. Ha partecipato come capo spedizione e responsabile scientifico a varie spedizioni in Siberia e Asia centrale organizzate dalla Società Alpina Friulana di Udine.

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